Le Comunità Terapeutiche: dal villaggio alla casa di cura

Le Comunità Terapeutiche: dal villaggio alla casa di cura

La nascita delle prime comunità terapeutiche si deve all’iniziativa pionieristica di alcuni psichiatri, il più noto dei quali è Maxwell Jones. L’idea originaria è semplice: trasformare gli ospedali psichiatrici – allora luoghi in cui vigeva una totale asimmetria fra ricoverati e personale curante – in luoghi di convivenza più paritari, in cui i pazienti potessero sperimentare un ruolo sociale e una partecipazione attiva alla vita della comunità.

Un modello di villaggio, basato su valori solidaristici e sulla condivisione, con una forte presenza di personale curante in posizione di contatto quotidiano e molto prossimo con i pazienti ricoverati.

Un modello molto diverso da quello evoluto in diversi approcci psicologici alla clinica, molto spesso fondati su regole di setting che prevedono la costruzione di uno spazio terapeutico asettico. Paziente e terapeuta non condividono alcuno spazio di vita, se non quello specificamente deputato alla psicoterapia, e le informazioni vengono trasmesse in modo asimmetrico: ciò che il terapeuta condivide di sé è uno slot rarefatto di informazioni, perfettamente controllato e confinato ad un tempo limitato.

Le tracce del modello del villaggio terapeutico si trovano ancora. In Italia, esiste una radicata tradizione di comunità terapeutiche che funzionano sulla base del contributo che le persone ricoverate danno al contesto che le ospita. Un modello rivoluzionario, sia sul piano clinico che sul piano del recupero sociale delle persone, volto a dare alle persone un ruolo attivo in una sorta di villaggio protetto.

Tutto perfetto. Questo mondo, intatto e perfettamente funzionante, è quello che ho trovato all’inizio della mia attività in una Comunità Terapeutica del Veneto, nel 2001: una struttura perfettamente organizzata, quasi autonoma dal punto di vista della produzione alimentare per consumo interno, in cui ogni attività di manutenzione e funzionamento veniva svolta dai pazienti. I quali trovavano in questo modello di vita, un’alternativa di salute ai modelli familiari ed esistenziali che avevano vissuto fino al loro ingresso.

Ma nei 15 anni trascorsi da quando ho iniziato, qualcosa è cambiato. Intanto, si è persa nei pazienti quella sorta di trasmissione culturale del tema del villaggio in cui tutti devono contribuire, e nelle Comunità terapeutiche per tossicodipendenti sono stati inseriti ospiti con forme di psicopatologia sempre più grave. Ma sarebbe ingenuo attribuire al solo cambiamento della qualità dei pazienti il crollo del dispositivo terapeutico della comunità.

Ciò che è cambiato è anche il sistema della cura, nel suo complesso. La mia impressione è che il sistema sanitario nazionale – specie nell’ambito delle dipendenze – abbia basato una parte del costo della cura sul contributo dei pazienti alla struttura ospitante. Contributo che è venuto meno in modo strutturale, per varie ragioni. A questo cambiamento non è però corrisposta, ancora, una lettura e una soluzione diversa al problema della sostenibilità delle Comunità Terapeutiche.

Le rette corrisposte alle Comunità per ciascun paziente sono rimaste invariate. Il contributo concreto dei pazienti è diminuito, e anche la stabilità dei programmi si è progressivamente ridotta. Oggi, è difficile contare sul percorso continuativo di due-tre anni di un ospite, su cui si investe molto in termini pedagogici e terapeutici nei primi mesi per poi ottenere una sorta di ausiliario alla cura e alla conduzione della struttura.

In ultima analisi, il prezzo di questo cambiamento è in capo alle Comunità Terapeutiche. Ai professionisti che vi operano. I quali sono stretti oggi fra una molteplicità quasi insostenibile di ruoli: devono garantire professionalità a livelli molto elevati perché elevati sono gli standard di cura richiesti dal sistema inviante. Ma allo stesso tempo, devono in qualche misura sposare il villaggio e i suoi valori, garantendo un’esclusività di impegno che a volte sfiora la devozione; e questo entra in contrasto con la professionalità, che si nutre necessariamente di esperienze variegate, di reti di collaborazioni e di attività in contesti diversi. Inoltre, agli operatori delle Comunità Terapeutiche è richiesto anche un ruolo imprenditoriale, laddove spesso la forma societaria è la cooperativa o l’associazione in cui i lavoratori sono anche soci. Soci che assumono pienamente il rischio d’impresa, accettando riduzioni dei compensi nei periodi critici. Soci che in molti casi assumono il rischio dell’imprenditore, senza però beneficiare di compensi economico commisurati e di un adeguato potere decisionale.

Il sistema pubblico, le catene di invio, obbediscono a loro volta a logiche tipiche della Pubblica Amministrazione. In un tempo governato dalla psicosi dei tagli alla spesa, il paradigma della sussidiarietà e della compartecipazione pubblico-privato alla costruzione del sistema di cura, orgoglio di molte realtà regionali (fra cui il Veneto, la Lombardia, il Piemonte), parrebbe ormai svuotato del suo elemento essenziale, che è la condivisione delle decisioni.

Visto da fuori, il romantico sogno di un villaggio che cura pare sulla via del tramonto. Sembra affacciarsi una nuova logica, nelle Comunità terapeutiche: quella della Casa di Cura. Dell’istituzione in cui l’ospite torna ad essere malato in stato di passività, che riceve le cure e non vede il motivo per cui dovrebbe provvedere allo sfalcio del prato o alla preparazione dei pasti. Del luogo in cui il curante torna ad essere un professionista che deve garantire una perizia tecnica e manageriale sempre maggiore, sopportando anche il rischio d’impresa, senza però un’adeguata compensazione economica e una garanzia di stabilità del reddito.

Io ho vissuto entrambi i paradigmi, in contesti molto diversi fra loro. Ciascuna struttura sta affrontando questi passaggi con i propri strumenti e i propri collaboratori. Non so ancora decidermi su quale sia il migliore dei mondi possibili. E’ però certo che l’esperienza di lavoro in Comunità Terapeutica, quale che sia la struttura in cui si lavora, ha aspetti enormemente formativi ma espone ad una grande e costante ambivalenza.