L'illusione di non ferirsi mai.

L’illusione di non ferirsi mai.

Ecco, non è che la terapia psicologica sia indolore. Quello che cambia rispetto all’assenza di trattamento è che il dolore nella terapia [e per noi terapeuti, nella supervisione e nel confronto con il paziente e i colleghi] ha un obiettivo. In questo essere finalizzato, il dolore acquista il senso e la nobiltà di uno sforzo – fisico, economico e psichico – per raggiungere un traguardo.

Perché la ferita è anche una feritoia.

Lo diceva spesso Aldo Carotenuto. È una feritoia da cui si può osservare meglio il proprio mondo psichico, e quello del paziente se siamo nella posizione del terapeuta. Perché da come ti ferisce un paziente, un collega, un supervisore, una condizione di vita, si possono ricavare ben più informazioni che non dalla pelle liscia e integra di chi non si ferisce mai.

Ammesso che esista qualcuno che non si ferisce mai. Che a ben guardare è una pretesa che a volte avremmo, quella che tutto vada sempre per il meglio, che la seduta delle cinque e mezza scorra liscia con il paziente che entra sofferente ed esce sorridente. Che la nostra supervisione ci confermi che siamo bravi, bravissimi, ottimi terapeuti con il perfetto controllo del dispositivo terapeutico, empatici e simpatici. Che il nostro supervisore ci sorregga e non ci provochi, che non ci abbandoni.

Insomma, l’illusione che vada sempre tutto bene, che i rapporti professionali restino nell’alveo della normalità.

Che poi, nel nostro mestiere, non esistono rapporti normali, relazioni piane. Che sia con il paziente, con i colleghi o con il supervisore, non siamo mai nel campo delle normali relazioni sociali: il paziente non viene da noi per chiacchierare, ma per esporci ed esporsi alla sua propria ferita. Viene per farcela guardare, toccare; per chiederci se guarirà e se noi in qualche modo possiamo intervenire perché la guarigione avvenga più in fretta. È chiaro che ci farà male, e ci impressionerà, e che certe cose ci faranno pure schifo e ci metteranno in imbarazzo, perché vedere un altro essere umano con quel pezzo in carne viva che pulsa e spurga non è facile. Ma credo che fare questo mestiere non ci permetta di evitarlo.

Una volta – facevo il pizzaiolo durante l’università – mi ustionai tre dita con una teglia appena uscita dal forno. Non senti subito il dolore, perché la pelle a contatto col ferro rovente si cauterizza come una bistecca a contatto con la piastra arroventata. Poi però il dolore arriva, acutissimo. Ecco, in quei momenti devi augurarti di avere vicino un collega che ti guarda tra il divertito e lo stupito, commentando con uno dei più efficaci interventi di supervisione che potrai mai ricevere:

Cosa ti aspettavi, lavorando con i forni? di non scottarti mai?’